“E’ passato più di un anno da quando abbiamo cominciato a fare i conti con la pandemia di Covid-19. Un anno pesante. Mi auguro senso di responsabilità da parte di tutti nel non pensare che tutto sia finito. Spero si continui con comportamenti di buonsenso, proprio perché non è ancora finita. Gli ospedali non sono vuoti. Mi auguro che sia il comportamento responsabile a diffondersi come un virus, che così forse si potrà passare un’estate più leggera”. Ha un cenno di stanchezza nella voce Monica Falocchi, caposala della Terapia intensiva degli Spedali Civili di Brescia. I suoi occhi castani, intensi, li hanno visti in tanti. Dalla copertina che il ‘New York Times’ le ha dedicato nel suo magazine. Era aprile 2020.  

“Sono solo un volto che ne rappresenta tanti altri – dice all’Adnkronos Salute nella Giornata internazionale dell’infermiere – Quella copertina ha avuto risvolti diversi: grandi soddisfazioni ma anche amarezze. Perché la visibilità non sempre è compresa. Io speravo che quell’immagine fosse un simbolo per tutti gli infermieri, non solo per me. Ma non sempre il messaggio passa”. E il suo pensiero oggi va “a tutti gli infermieri e gli operatori sanitari in questa giornata importantissima. L’infermiere è responsabile della gestione del processo assistenziale, unisce competenze tecniche e relazionali e mai come dopo questo lungo anno gli è richiesto un impegno emotivo tanto forte”, sottolinea.  

Essere infermiere, continua Falocchi, “significa prendersi cura delle persone, mettendo al primo posto l’umanità. E’ un ruolo importante nella società, siamo quelli che stanno sempre più vicino al paziente, senza nulla togliere alle altre figure professionali. E spero che questa pandemia lasci qualcosa di positivo, cioè un reale riconoscimento agli infermieri italiani e al loro ruolo. Se sento un vento di cambiamento? Me lo chiede in un momento in cui sono particolarmente sfinita e non così ottimista”. 

Ci tiene a precisarlo Monica: “La situazione è sotto controllo, ma non risolta. Persiste una richiesta di costante e continuo impegno”. Mai come in era Covid è stato così chiaro: “Serve che si investa di più, serve fare in modo che il personale abbia il meritato riposo dopo eventi così totalizzanti, che hanno segnato ogni professionista, al lavoro in tutte le aree, non solo in quelle Covid. Tutto il sistema sanitario si è trasformato e tutti hanno dovuto riadattarsi e ingegnarsi in nuove situazioni. Checché se ne dica, non eravamo preparati, anche se è il nostro lavoro”.  

E dopo la prima ondata, “ce n’è stata un’altra. E’ stato difficile rimettersi quegli abiti per l’ennesima volta. I casi che abbiamo curato sono stati numerosi e in questa ondata decisamente più giovani, cosa che ci ha richiesto un impegno emotivo fortissimo – racconta – In questo momento credo che tutti gli infermieri abbiano bisogno di riprendere un po’ in mano la propria vita e passare un po’ di tempo fuori dall’ospedale perché adesso è davvero difficile. La discesa è lenta”.  

Per esempio “nel nostro ospedale abbiamo chiuso alcuni letti ma il numero di pazienti non è quello che speravamo. L’anno scorso in questo periodo eravamo più alleggeriti di ora. E’ stato difficile e lo è tuttora, sempre di più per la fatica accumulata. Penso anche ai colleghi spostati dai loro setting abituali e poi, appena si poteva respirare, riportati nelle aree dove hanno sempre operato”. Quando Covid allenta la morsa, le strutture devono alzare parallelamente il ritmo dell’assistenza per le altre patologie. “Ecco perché voglio ripeterlo ancora: per noi non è finita”, conclude Falocchi.