Come restituire umanità alle connessioni digitali e trasformare la distanza in opportunità di presenza

Sono le 9:00, accendi il computer, apri Zoom: sei già in riunione. Poi un’altra e un’altra ancora. Alle 18:00 chiudi il laptop e ti accorgi che hai parlato con dodici persone, ma non hai davvero incontrato nessuno.

Benvenuto nel paradosso dello smart working: siamo iper-connessi tecnologicamente, ma disconnessi umanamente. Lo smart working ha portato indubbi vantaggi: flessibilità, risparmio di tempo negli spostamenti, possibilità di conciliare vita e lavoro. Al tempo stesso ha anche creato una nuova forma di solitudine: la solitudine digitale. Quella sensazione di essere circondati da persone (sullo schermo) eppure profondamente soli.

Le organizzazioni, spesso inconsapevolmente, stanno pagando il prezzo di questa disconnessione: team meno coesi, cultura aziendale più fragile, innovazione che fatica a emergere, burnout digitale in crescita esponenziale.

Probabilmente è tempo di chiederci: come possiamo lavorare a distanza senza perdere il contatto?

Il problema: lo schermo come interfaccia, non come spazio relazionale

Trattiamo le videoconferenze come se fossero riunioni “normali ma su schermo“, ma non lo sono.

In una stanza fisica, percepiamo:

  • L’energia del gruppo.
  • Le micro-espressioni facciali.
  • I silenzi carichi di significato
  • La postura, il respiro, la tensione nell’aria.

Su Zoom o Teams? Vediamo delle piccole finestre. Spesso le videocamere sono spente, a volte gli sfondi sono finti. Si percepisce quella sottile ansia di essere osservati (o ignorati) mentre parliamo nel vuoto.

Il risultato è una comunicazione impoverita: trasmettiamo informazioni, ma non creiamo presenza. Parliamo, ma raramente ci incontriamo davvero. Una domanda importante: quanto delle nostre giornate lavorative è davvero incontro e quanto è solo trasmissione di dati attraverso schermi?

La stanchezza da Zoom (ad esempio): quando il digitale diventa esaurimento

La “Zoom fatigue” è ormai riconosciuta scientificamente. Ma perché le videochiamate ci stancano così tanto?

Secondo gli studi di Stanford, i motivi principali sono:

  1. Contatto oculare eccessivo e innaturale: su Zoom guardiamo volti ravvicinati per ore, una cosa che nella vita reale facciamo solo in contesti di intimità.
  2. Vedere continuamente sé stessi: è come avere uno specchio sempre davanti. Genera auto-monitoraggio costante e ansia.
  3. Mobilità ridotta: siamo inchiodati davanti allo schermo. Il corpo si irrigidisce, l’energia ristagna.
  4. Carico cognitivo aumentato: dobbiamo “leggere” segnali sociali attraverso un filtro tecnologico, un lavoro mentale faticoso e spesso infruttuoso.

Ma non solo, c’è un livello ancora più profondo: la mancanza di campo relazionale.

In presenza abitiamo uno spazio comune. Su Zoom, siamo ciascuno nel proprio spazio collegati solo visivamente. Manca quella dimensione sottile, invisibile ma percepibilissima, che i sistemici chiamano “campo” in presenza: l’atmosfera condivisa, l’energia collettiva, la risonanza tra corpi.

Senza campo, le relazioni si impoveriscono. Vero che anche una Zoom crea il suo “campo”, ma non è minimamente paragonabile.

Smart working: da emergenza a modello, senza consapevolezza

Durante la pandemia, lo smart working è stato un’ancora di salvezza. In seguito, in molte aziende, è diventato la norma senza che ci fosse una riflessione consapevole su come farlo bene.

Abbiamo semplicemente trasferito online pratiche pensate per la presenza fisica:

  • Riunioni fiume su Zoom.
  • Brainstorming via Miro (che funzionano parzialmente).
  • Team building virtuali imbarazzanti.
  • Aperitivi su Zoom (perché no, appunto…)

Cosa abbiamo ottenuto con tutto questo? Stanchezza, frustrazione, senso di artificiosità.

Il problema non è lo smart working in sé, ma come lo stiamo abitando: senza intenzione, senza rituali, senza cura del tessuto relazionale.

Visione sistemica: la distanza fisica dello schermo amplifica le dinamiche nascoste

Quando lavoro con team in smart working usando le mappature sistemiche, emerge un pattern ricorrente: la distanza fisica amplifica le dinamiche relazionali già presenti.

Per esempio, se c’era una tensione latente tra due colleghi, a distanza diventa un muro. Se qualcuno si sentiva escluso, ora è letteralmente invisibile. Se mancava fiducia, ora è impossibile costruirla.

Lo schermo non crea questi problemi, ma li magnifica. Senza gli spazi informali (pausa caffè, corridoio, pranzo, riunione informale) che in presenza aiutavano a “ricucire”, le fratture si allargano.

Inoltre, emergono nuove dinamiche:

  • Gli invisibili digitali: persone che, a distanza, spariscono. Non parlano nelle call, non scrivono in chat. Il sistema li perde.
  • I sovra-visibili: altri che, per compensare la distanza, diventano iper-presenti, rispondendo a qualsiasi ora, scrivendo continuamente. Rischio burnout.
  • I disconnessi emotivi: persone fisicamente presenti sullo schermo, ma emotivamente altrove. Videocamera accesa, ma sguardo vuoto.

Queste dinamiche non sono “colpe individuali“, ma delle risposte sistemiche alla mancanza di uno spazio relazionale adeguato.

Trasformare lo schermo da muro a finestra: pratiche concrete

Come possiamo restituire umanità alle connessioni digitali? Ecco alcune pratiche che ho visto fare la differenza:

1. Centratura emotiva all’inizio di ogni call

Prima di entrare nell’agenda, dedica 5-10 minuti ad un momento di centratura, basta qualche minuto di silenzio portando attenzione al respiro e a come ci si sente veramente in quel momento. Una qualità di presenza che sia dal vivo che soprattutto on line fa la differenza.

Questo crea campo relazionale anche a distanza.

2. Videocamere accese (ma con senso)

Le videocamere aiutano a sentirsi presenti, obbligarle sempre crea resistenza e stanchezza.

Un’alternativa: videocamere accese nei momenti di dialogo, ma opzionali nelle parti più operative o informative. ( è veramente un ‘opzione…io sono sempre per riunioni più brevi e telecamere sempre accese…)

Per le riunioni lunghe prevedere vere e proprie pause di 5 minuti dove tutti spengono videocamera e microfono, si alzano, respirano, bevono qualcosa.

3. Le “passeggiate telefoniche” (walking calls)

Per alcune conversazioni, soprattutto quelle 1-to-1 invece della videocall, proponi una telefonata camminando. Ciascuno esce, cammina, parla.

Il movimento sblocca il pensiero. La voce senza volto a volte permette una vulnerabilità che lo schermo blocca, ma soprattutto, esci dalla stanza chiusa.

4. Spazi asincroni per la riflessione

Per temi complessi, invece di una call fiume, prova:

  • Un documento condiviso dove ciascuno scrive i propri pensieri.
  • Un breve messaggio vocale di riflessione (più umano di una mail)
  • Un video registrato invece della call

Questo rispetta i ritmi individuali e riduce la fatica da schermo.

5. I rituali digitali consapevoli

Crea rituali che scandiscono il tempo e creano senso di appartenenza:

  • Il caffè virtuale del lunedì (15 minuti, no lavoro, solo connessione umana)
  • Il “venerdì della gratitudine” (ognuno ringrazia qualcuno del team)
  • La “domanda della settimana” (condivisa in un gruppo WhatsApp o Slack)

Non serve inventare nulla di complesso. Servono gesti semplici, ripetuti, carichi di intenzione.

6. Creare “stanze” informali digitali

Molte piattaforme permettono di creare spazi sempre aperti dove passare “a salutare”. Una sorta di ufficio virtuale dove, invece di bussare, entri quando vuoi non per lavorare, ma per esserci. Utile per scambiare due parole, per chiedere un consiglio al volo, per ricreare quella informalità che alimenta le relazioni.

7. Gli incontri in presenza (pochi ma intensi)

Lo smart working non sostituisce l’incontrarsi, ma significa scegliere quando vedersi.

Pianifica incontri in presenza strategici (le riunioni operative si fanno bene anche online) per:

  • Momenti di visione e strategia.
  • Celebrazioni e rituali collettivi.
  • Mappature sistemiche e lavori di team building profondo.
  • Spazi di conflitto e riparazione relazionale.

Quando ci si vede, deve contare: deve essere tempo di qualità.

Il counseling aziendale a distanza: quando lo schermo diventa spazio di cura

Il counseling aziendale può essere efficace anche a distanza, se fatto con consapevolezza.

Nel mio lavoro, accompagno spesso professionisti e team in modalità digitale e ho imparato che:

  • Lo schermo può creare intimità protettiva: alcune persone si aprono di più perché si sentono nel proprio spazio sicuro e protetto.
  • È essenziale rallentare ancora di più: a distanza, i silenzi sono più difficili da sostenere, ma ancora più preziosi.
  • Il corpo va coinvolto: anche online, si possono fare e guidare esercizi di presenza, respiro, movimento leggero.
  • Le mappature sistemiche si possono fare a distanza: usando oggetti nello spazio di ciascuno, rappresentazioni digitali su lavagne condivise o guidando visualizzazioni.

Il digitale non va considerato come un “ripiego”, ma come uno spazio diverso, con possibilità proprie.

La sfida culturale: ripensare il lavoro, non solo il luogo

Il vero problema dello smart working non è tecnologico, è culturale.

Molte persone/aziende pensano che smart working significhi “lavorare da casa invece che dall’ufficio“. Si tratta però di una visione estremamente riduttiva.

Smart working è l’opportunità per ripensare il lavoro stesso:

  • Da orario fisso a gestione per obiettivi.
  • Da presenza fisica a presenza relazionale.
  • Da controllo a fiducia.
  • Da gerarchia rigida a responsabilità distribuita.

Sono queste le learning organisation, sistemi che apprendono, si adattano, evolvono. Lo smart working, se fatto bene, può accelerare questa evoluzione.

Serve però lasciare andare il mito del controllo “se non li vedo, non lavorano” e abbracciare la fiducia nel team attraverso una visione più ampia.

Il paradosso della vicinanza: a volte la distanza ci avvicina

C’è un paradosso interessante: alcune organizzazioni, passando allo smart working, hanno scoperto di essere più connesse di prima.

Come è possibile?

Perché hanno dovuto essere intenzionali. Non potevano più dare per scontato che “tanto ci vediamo in ufficio“. Hanno dovuto creare momenti dedicati alla relazione, ritualizzare la connessione, essere espliciti sui bisogni ed estremamente focalizzati.

Questa intenzionalità ha permesso di creare relazioni più profonde di quelle casuali dell’ufficio.

La lezione da apprendere? La vicinanza non si misura in metri, ma in presenza.

Puoi essere nello stesso ufficio e totalmente disconnesso. Puoi essere a 1000 km e profondamente in relazione, dipende da quanto sei disposto ad esserci davvero.

Verso un nuovo modo di stare insieme (anche a distanza)

Lo smart working è il presente e non sparirà.

Possiamo però scegliere come viverlo. Possiamo trasformare lo schermo da muro a finestra. Possiamo creare connessioni autentiche anche a distanza. Possiamo costruire organizzazioni dove la presenza relazionale è prioritaria quanto la produttività.

Serve:

  • Intenzionalità: ogni connessione digitale va curata, non data per scontata.
  • Rituali: gesti ripetuti che creano senso di appartenenza.
  • Spazi protetti: momenti dove prima si è e poi si lavora.
  • Visione sistemica: vedere il team come un prezioso ecosistema relazionale.
  • Rallentare: la velocità uccide la connessione umana.

“L’essenziale è invisibile agli occhi” scriveva Antoine de Saint-Exupéry e allo stesso modo anche su Zoom, l’essenziale non sta nelle slide o nell’agenda, ma nella qualità della presenza che portiamo in quello spazio digitale.

Si tratta di una presenza che nessuna tecnologia può crearla al posto nostro: possiamo solo scegliere, ogni giorno, ogni call, ogni messaggio, di portarla noi.

Lo schermo può essere una parete o può essere una finestra.

La scelta è nostra.

Antonio D’Este

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